Bubble tea, Matcha latte, chai tea, cheese tea, Bò cha (il tè Tibetano con burro e latte di Yak) o, per i più tradizionalisti, il classico tè britannico, con una “dash of milk” (letteralmente “spruzzata di latte”). Insomma, complici sia la riscoperta di antiche tradizioni locali sia la moda dettata dal momento, in questi anni il connubio tè-latte sta rapidamente spopolando con la creazione di un vero e proprio business accompagnato da foto e pubblicità che invadono i social.
Il Giappone, patria indiscussa del tè verde, regno dei puristi del settore e della semplicità, starete pensando, sarà sicuramente rimasto indignato dall’abitudine di “insozzare” un tesoro prezioso come il tè con un banalissimo latticino: ebbene, a testimonianza che le tradizioni culturali non sono come pietre fisse nel tempo, sappiate che anche in area nipponica troverete l’abbinamento in questione in una bevanda che, seppure di invenzione recente, ha già saputo arrogarsi il diritto di prodotto tradizionale. Curiosi? Volete sapere di cosa si tratta? E va bene, per voi metterò da parte il mio scetticismo e vi parlerò di quello che noi tradurremmo con “tè regale al latte”.
Se vi capitasse di dovere mettere piedi in Giappone, probabilmente, vi imbattereste subito in uno degli innumerevoli distributori automatici o dei fantomatici konbini, abbreviazione del nome convenience store コンビニエンスストア, ossia piccoli negozietti aperti 24 ore su 24. In entrambi i casi, rovistando tra l’ampia offerta che troverete, potreste trovare delle bottigliette alquanto appariscenti ma accomunate da una strana scritta ovvero ロイヤルミルクティー: eccolo, è lui, il Royal Milk Tea. Questo strano prodotto, che all’apparenza potrebbe ricordare un’altra storica marca presente nel nostro Paese, in verità si discosta molto da quello che ci aspetteremmo.
Royal Milk Tea
Il Royal Milk Tea deve la propria esistenza, fondamentalmente, ad una grande campagna di marketing denominata “royal recipe series” inaugurata, negli anni ’60, dalla nota marca statunitense Lipton ed è nel 1965, di preciso, che fa la propria comparsa la bevanda che ha catturato il nostro interesse. Nondimeno, il rapido successo ottenuto dal prodotto in questione nonché l’ispirazione per la sua creazione sono da ricondursi, in parte, ad una tradizione locale, più radicata nel tempo e, se non fosse stato per l’operazione della già citata azienda, con ogni previsione destinata a scomparire. Nelle aree a nord del Giappone, oggi riunite perlopiù sotto il nome di Hokkaidō, di fatto era abitudine consumare tè nero con latte intero bollente per contrastare il clima rigido sorbendo qualcosa di caldo e, al contempo, nutriente.
Torniamo ora alla bevanda che domina il mercato nipponico e cerchiamo di chiarire, esattamente, di cosa si tratti. La prima differenza che incontriamo con il tradizionale tè preparato in Hokkaido risiede nella temperatura stessa: mentre quest’ultimo era stato concepito per riscaldare nelle dure giornate d’inverno, il Royal Milk Tea si presenta spesso a temperatura ambiente, conservato negli scaffali dei mini market o, come già detto, nelle vetrine dei distributori automatici ma, negli ultimi anni, sono comparse anche versione refrigerate per combattere la calura estiva.
Altre caratteristiche del “tè regale” sono poi quelle di declinarsi in diverse aromatizzazioni, alcune delle quali limitate o stagionali, e di fare dello zucchero un obbligo invece che un optional: in breve, se vogliamo berne un poco è meglio sapere fin da subito che il termine sugar-free (senza zucchero), tanto in voga in Occidente e osannato da attrici e dive della tv, non è contemplato.
Parlando sempre di Royal Milk Tea, tuttavia, si profila all’orizzonte un grande fraintendimento. Un Occidentale, secondo le proprie abitudini, si aspetterebbe probabilmente un semplice tè nero macchiato con del latte e poi aromatizzato e dolcificato ma non potrebbe esservi nulla di più errato. Sia il tradizionale tè di Hokkaido che la sua controparte moderna hanno infatti una caratteristica comune che li distingue da ogni altra bevanda simile nel mondo: le foglie di Assam o Darjeeling vengono, infatti, infuse direttamente nel latte. Sì, avete capito bene, nel Royal Milk Tea non v’è traccia di acqua, almeno nella sua versione originale.
“Non tutto è oro quel che luccica!”
Vi avrei sicuramente parlato, prima o poi, del Royal Milk Tea ma devo fare ammenda e confessarvi che ho sfruttato l’occasione che esso offre per parlarvi di un piccolo popolo quanto tenace, speciale ed ai più sconosciuto: gli Ainu アイヌ.
Ritengo che il tè, tra le sue molteplici proprietà, possegga il potere di riunire le persone estraendo lentamente da esse la loro essenza ed abbattendo i muri della diversità per riunirle pacificamente attorno ad un’unica tazza, quella dell’umanità: non a caso, a tale proposito, ho scelto di intitolare la mia tesi di laurea “La coppa dell’umanità” tè e simbolismi nello spazio e nel tempo: la performance dell’essere umano. Perché, dunque, non sfruttare lo stesso tè per regalarci l’opportunità di riflettere ed ampliare i nostri orizzonti?
Come vi ho già detto, il Royal Milk Tea trae spunto da un’antica usanza della popolazione nordica del Giappone ma, quello che ancora forse non sapere, è che proprio in Hokkaidō sopravvive ancora oggi l’etnia degli Ainu. Perché ho usato la parola “sopravvive”? Perché il passato ed il presente di questa gente sono segnati dalla discriminazione, dall’emarginazione e dalla persecuzione, tutte parole che a noi Occidentali parrebbero fare parte di un tempo recente, abominevole e ormai superato, ma che, invece, nel resto del mondo perpetuano purtroppo il loro significato.
Gli Ainu
Cominciando a scavare nella storia del popolo Ainu scopriremo che la sua provenienza è incerta ma anche che, grazie ad un’ondata migratoria, si stabilì in Giappone già a partire dal 10000 a.C.: per quale ragione, dunque, gli attuali giapponesi non presentano i tratti somatici tipici dell’etnia in questione? Benché le origini degli attuali abitanti del Giappone siano tuttora argomento di dibattito tra gli esperti del settore una delle teorie più accreditate afferma che, nei secoli a venire, gli Ainu si unirono a nuove popolazioni provenienti dalla Corea dando così vita alla stirpe degli Jōmon 縄文 la quale, oltre a dare il nome alla relativa epoca storica detta Jōmon Jidai 縄文時代 (10000-3000 a.C.), segnò gli albori dell’attuale popolo giapponese.
Perché dunque, vi starete sicuramente domandando ora, i giapponesi discriminano quella stessa gente che ha dato loro i natali? La risposta non è così semplice e bisognerebbe fare un’attenta disamina di numerose vicissitudini storiche, alcune delle quali peraltro ancora in fase di studio nonché perse nelle nebbie del tempo, ma possiamo fare alcune affermazioni in merito.
Prima di tutto, si registra una certa intolleranza nei confronti dei Coreani a partire dalla colonizzazione della Corea per opera del Giappone dal 1910 d.C. al 1945 d.C.: tale accadimento ha presumibilmente dato adito alla catalogazione dei coreani stessi come “razza inferiore” e segnato l’inizio della loro persecuzione.
In nome di quanto detto, quindi, difficilmente un cittadino giapponese ammetterà di avere origini genetiche da un’unione tra Ainu e coreani. Altra ragione discriminatoria, poi, è rappresentata dalle differenze somatiche, culturali e di linguaggio che intercorrono ancora oggi tra la popolazione prevalente e l’etnia Ainu che presenta una statura mediamente più ridotta della prima, carnagione chiara e struttura ossea più robusta.

Con l’affermarsi e l’ampliamento degli Jōmon gli Ainu cominciarono a ritrovarsi in numero inferiore nonché ad essere spinti, sconfitti dalla superiorità bellica dei primi, sempre più a nord dell’isola dove sono, di fatto, ancora oggi confinati. Tutto quanto cominciò già a partire dal periodo Yamato 大和時代 (250-710 d.C.) e le persecuzioni non cessarono nei secoli a venire esacerbandosi con l’avvento della Restaurazione Meiji (1853-1868 d.C.): quest’ultima, infatti, si poneva quale obiettivo principale l’unificazione del Giappone sotto il nome di un unico popolo e, perciò, gli Ainu si ritrovarono ad essere ancora più esclusi dalla via sociale, politica ed intellettuale del Paese. Il culmine della disparità giunse poco dopo quando, nel 1899 d.C., venne promulgata una vera e propria legge che proibiva la lingua indigena.

Dopo più di un millennio di persecuzioni e repressioni, nel 1997 d.C. la “Legge sulla Promozione Culturale” parrebbe volere porre fine alla sofferenza degli Ainu tramite la legislazione di varie contromisure: nondimeno, quest’ultime parrebbero meno efficaci di quanto non sembrino. La discriminazione nel mondo lavorativo non è affatto cessata così come dimostrano i dati rilevati da diversi studi sociali secondo cui più della metà degli individui appartenenti all’etnia in questione non possiede un posto lavorativo fisso o full time: allo stesso modo, sebbene ora i bambini siano ammessi all’interno delle stesse strutture scolastiche destinate all’educazione dei giapponesi, permane la difficoltà di comprensione rappresentata dal divario linguistico non sanato da un adeguato piano di insegnamento bilingue.
Volendo proseguire, si potrebbe aggiungere che la popolazione Ainu non abbia una vera rappresentanza politica e che molti dei loro patrimoni materiali territoriali sono andati distrutti a causa di opere di costruzione urbana indiscriminate: un esempio eclatante è fornito dalla grande diga di Nibutani (1997 d.C.) la quale ha comportato l’allagamento, appunto, del paese di Nibutani, una delle poche aree rimaste popolate a maggioranza dal popolo indigeno.

In poche parole, anche se la discriminazione fisica e materiale sembra fortunatamente un lontano (ma non troppo) ricordo, quella sociale non sembra affatto essersi arrestata: ciononostante, bisogna ammettere che piccoli passi in avanti continuano ad essere fatti grazie ad uno sforzo continuo del governo giapponese. Tra i più recenti avvenimenti ricordiamo il riconoscimento ufficiale, nel 2008 d.C., degli Ainu quale popolo indigeno del Giappone e la lotta di quest’ultimo al fine di ottenere una rappresentanza in occasione delle prossime olimpiadi Tokyo 2020.

Vi ho incuriosito? Se vorrete, sul web potrete trovare tantissime nozioni circa questo piccolo ma unico popolo ma, per ora, cosa ne dite di conoscerlo meglio? Gli Ainu sono da sempre un popolo di pescatori e cacciatori: ancora oggi, di fatto, la caccia all’orso è considerata un’attività sportiva tra i membri di un gruppo sociale. Tuttavia, quanto detto non deve fare pensare che l’etnia Ainu sia interessata solo ad attività pratiche: essa prevede infatti anche attività artistiche quali la danza, il canto e la musica tanto da avere creato uno strumento musicale insolito e prettamente locale detto tonkori. Ancora, è impossibile non rimanere affascinati dalla religione animista Ainu: secondo quanto professato da tale Fede l’essere umano non sarebbe affatto superiore o inferiore agli altri essere viventi in quanto ciascuna creatura è pervasa dallo kamuy, un’unica, grande ed onnipresente forza spirituale che, come il filo rosso del destino, accomuna ogni protagonista del creato.
Melodia suonata con il tonkori
Canto tradizionale Ainu
Il rispetto per gli animali e l’armonia con la natura sono alla base della concezione del mondo Ainu: uccidere è un atto dovuto solo in caso di necessità, per mangiare o per onorare kamuy, mentre ogni violazione ingiustificata dell’ordine naturale porterà solo a dolore e sofferenza così come ci insegna la figura mitologica tradizione dei Koropokkuru コロポックル, creature umane dalla statura minuta, più basse di un kor, pianta locale dalla quale trae origine il loro nome. La leggenda vuole che i piccoli uomini fossero creature agili e scaltre, generose ed abili nel procacciare il cibo e che amassero dividere i loro tesori con il popolo degli Ainu a patto, però, di non essere visti.
Un giorno, un giovane Ainu decise di appostarsi ed attendere la consegna dei doni da parte di un Koropokkuru per poterne spiare le sembianze: quando la creatura giunse sul posto egli la afferrò nel tentativo di guardarla e, di rimando, la stirpe fiabesca, da quel giorno, smise di sostentare gli indigeni.

La prossima volta che berremo una tazza di tè, per favore, ricordiamoci innanzitutto che quello che abbiamo è un dono che la natura ci offre, il frutto del lavoro di molti individui, una ragione per dire “grazie” ma, allo stesso tempo, uno spunto per riflettere, per sentirci in armonia con il prossimo e con l’ambiente che ci circonda, una via per abbattere i muri politici, sociali e culturali, per infrangere quel castello di finzioni che costituisce le nostre presunte certezze. Scegliamo di metterci in gioco, di confrontarci senza timori e pregiudizi nella speranza che, un giorno, tutti potremo finalmente riconoscerci uguali, attraversati da kamuy, affinché finalmente Koropokkuru ed Ainu possano riunirsi riempiendo i solchi della distinzione.
Omar, 27 gennnaio 2019
#UnTèAlSolLevante #ViaggioIntornoAlTe
Grazie Omar, grazie Barbara
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Grazie a te per avere letto l’articolo e, se potrai, per diffondere queste informazioni!
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Prego Viorica 😃
Barbara e Omar
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