Chadō 茶道 è uno dei tanti nomi che può assumere il cha no yu (per maggiori informazioni potete leggere il mio precedente articolo) e si potrebbe letteralmente tradurre come “la via del tè”: nondimeno, il termine non si riferisce soltanto alla preparazione del matcha ma, al contrario, comprende anche le procedure più informali quale, ad esempio, il più comune Senchadō 煎茶 (l’arte di servire il tè per infusione, solitamente un Sencha).
Desidererei, d’altro canto, soffermarmi sul significato da attribuire al kanji chiamato dō 道 (via): esso, di fatto, può essere interpretato come strada o sentiero ma, allo stesso tempo, possiede anche una connotazione spirituale che designa un percorso per il raggiungimento spirituale. Proprio quest’ultimo significato è quello che entra in gioco quando parliamo di Chadō e, nello specifico, del cha no yu.
L’essere umano, per propria natura, è portato a conferire un senso alla realtà che lo circonda e, per fare questo, elabora delle chiavi di lettura, costruisce una società all’interno della quale trovare il proprio posto e istituendo, al contempo, ideali e valori tesi a mantenere l’ordine sociale stesso: un uomo privo di relazioni individuali, infatti, smetterebbe di essere tale, diverrebbe un selvaggio così come i ragazzini descritti ne “Il signore delle mosche” (1954 d.C.) di William Golding.
Attraverso complessi rituali, festività e pratiche quotidiane l’uomo stesso “mette in scena” i valori previo citati attraverso l’uso della simbologia: conferendo più livelli di significato a oggetti e azioni questi divengono un modo per reiterare e sostenere nel tempo principii morali e collettivi. Il cha no yu, da questo punto di vista, non fa eccezione e il fatto che sia sopravvissuto da tempi remoti fino ai giorni nostri è la riprova di quanto esso sia portatore di principii morali e collettivi tuttora validi per la società giapponese contemporanea.
Dalla codificazione ufficiale del cha no yu per mano di Sen no Rikyū (1522-1591 d.C.) si sono generate tre scuole, chiamate Sansenke 三千家, fondate dai diretti discendenti di quest’ultimo e mantenutesi attive fino ai giorni odierni attraverso un’eredità culturale tramandata per discendenza: i loro nomi sono Omotesenke, Mushakōjisenke e Urasenke. Tuttavia, non bisogna cadere nell’errore di considerare tali associazioni come reperti o testimonianze fedeli del passato: ogni usanza, per potere rimanere viva all’interno della società, necessità non soltanto di possedere valori considerati ancora essenziali ma, allo stesso tempo, deve sapere reinventarsi per adattarsi agli inevitabili cambiamenti storico-culturali che lo scorrere degli anni comporta.

Ne sono consapevole, a volte le mie introduzioni possono sembrare troppo lunghe o filosofiche ma, per quanto possibile, volevo intessere una sorta di red carpet letterario. Oggi voglio parlarvi di un uomo che incarna la forza della tradizione, una eminenza nell’universo del tè che ha deciso di raccontarci la sua esperienza attraverso un breve ma intenso scritto, “Chado lo zen nell’arte del tè” (1995), nel quale ha scelto di raccontare la propria esistenza attraverso il rito secolare del tè: si tratta di Soshistsu Sen XV, erede diretto e nuovo capostipite della scuola Urasenke. Cerchiamo, dunque, di conoscerlo meglio per cercare di capire un poco, riscrivendo brevemente la sua esistenza, quanto siano profonde le radici del cha no yu e come esse, ancora oggi, sostengano la società giapponese permettendo alle generazioni future di germogliare e sbocciare.
“Io sono nato in una famiglia profondamente radicata nella tradizione e nella pratica della Via del Tè […]. I miei più lontani ricordi comprendono le stanze da tè della mia casa, gli utensili per il tè con i quali giocavo, le lezioni di tè con mio padre, l’interminabile flusso di invitati accolti con una tazza di tè verde frullato. Nel 1964 sono subentrato a mio padre come capo della famiglia e sono divenuto il Gran Maestro della XV generazione della Scuola di Tè Urasenke […].”
(Soshitsu Sen XV, Chado lo zen nell’arte del tè, 1995)

Soshitsu Sen XV nacque nel 1923: figlio del maestro del tè Soshitsu Sen XIV, egli entrò fin da subito a contatto con l’atmosfera e lo stile di vita tipici del cha no yu. Sin dalla tenera età, il padre cominciò ad impartire al figlio le proprie lezioni al fine di trasmettere ai posteri il culto del wabi-cha (altro termine utilizzato per definire il cha no yu stesso così come inteso dal suo celebre fondatore Sen no Rikyū): dallo chashitsu (stanza del tè) era però esclusa la presenza della madre, la quale non poteva prendere parte alla cerimonia in quanto donna così come originariamente dettavano i canoni della stessa. Come avevo già accennato, di fatto il cha no yu fu per lungo tempo appannaggio del solo genere maschile e soltanto in seguito, con l’emancipazione della figura femminile e l’apertura dell’istruzione pubblica a entrambi i sessi, entrò a fare parte delle “buone maniere”, materia di studio scolastica impartita alle ragazze.
“Ogni volta che mi respingeva, la lezione non era semplicemente memorizzata, era appresa. Senza parlarmi duramente o dilungarsi nelle sue istruzioni, mio padre mi faceva comprendere che avrei presto dimenticato ciò che mi sforzavo semplicemente di memorizzare, ma ciò che avessi appreso con il mio corpo vi sarebbe rimasto inciso per la vita intera.”
(Soshitsu Sen XV, Chado lo zen nell’arte del tè, 1995)

Gli insegnamenti del padre di Sen XV erano alquanto rigidi e fondavano la loro validità non sull’atto di memorizzare bensì su quello di “incorporare” quanto appreso: solo così è possibile eseguire un’azione semplice quale, per esempio, offrire una tazza di tè, senza però sentirsi condizionati dal risultato finale o pensare ad altro.
Come ci insegna il buddhismo zen, infatti, la vera pace interiore risiede nel sapersi allontanare dalle passioni terrene, riconoscendo la transitorietà del mondo materiale, rinunciando agli agi della vita per tornare a stupirsi dinanzi alla quotidianità. Colui che pratica il cha no yu inteso come Chadō, pertanto, esegue una serie di azioni che, se attuate con il giusto atteggiamento, gli consentiranno di raggiungere uno stato di quiete spirituale: allo stesso tempo, una cerimonia de tè eseguita in maniera impeccabile è lo specchio di un animo sereno.
“Decisi che era necessario trovare in qualche maniera il mezzo di imparare a fondo il modo di camminare. Mi allenavo a camminare avanti e indietro, a piedi nudi, in un lungo corridoio, tenendo tra le mani un braciere di ceramica pieno di cenere: malgrado il suo peso, avevo cura di non dimenticare il mio portamento. Piuttosto che concentrarmi troppo sullo stile dei miei passi, dovevo camminare con naturalezza. Con questo esercizio tutto il mio corpo acquistò compostezza.”
(Soshitsu Sen XV, Chado lo zen nell’arte del tè, 1995)
A causa della chiamata alle armi dovuta alla guerra, Soshitsu Sen XV fu costretto ad interrompere momentaneamente i propri studi ma nel 1946 riuscì finalmente a diplomarsi. Come voleva la tradizione, ben presto egli subentrò al progenitore nel ruolo di Grande Maestro del Tè e iniziò, portandola a termine, la propria formazione zen rimarcando, con l’esempio della propria vita, la stretta connessione tra la filosofia in questione e il wabi-cha.

Si potrebbe pensare, giunti a questo punto, che lo scopo delle antiche scuole del tè giapponesi sia soltanto quello di mantenere viva, all’interno di gruppi elitari, una tradizione troppo antica per potere sopravvivere: non v’è nulla di più sbagliato se si pensa anche solo al successo riscosso dal matcha ai giorni nostri nonché al rinnovato interesse nei confronti delle pratiche orientali. Altro obiettivo fondamentale della scuola Urasenke è, in virtù di quanto asserito finora, diffondere il culto del tè all’infuori del Giappone con lo scopo di diramare ovunque nel mondo i valori di pace e reciproca comprensione dei quali esso è portatore.
Soshitsu Sen XV, completata la sua formazione, intraprese una serie di viaggi in diversi Paesi nel tentativo di trasmettere le proprie conoscenze anche ad altri popoli. Sebbene inizialmente il Gran Maestro avesse l’intenzione di impartire i propri insegnamenti così come li aveva ricevuti, ben presto egli si rese conto di quanto fosse necessaria una rivisitazione delle pratiche rituali affinché queste potessero meglio integrarsi in contesti storico-sociali differenti rispetto a quello d’origine: soltanto in questo modo, infatti, il messaggio del cha no yu sarebbe risultato comprensibile e assimilabile da altri gruppi etnici.
“Mettendo a punto il mio viaggio, ripensavo allo sviluppo della Via del Tè, dai suoi inizi in Cina fino al suo radicarsi in Giappone […]. Se avessi potuto nello stesso modo far conoscere agli americani la Via del Tè, questa sarebbe diventata una pratica riconosciuta all’estero. […] Ma mi accorsi che non bastava vedere qualcuno mentre preparava una tazza di tè e ascoltare una spiegazione, per rendere la pratica del Tè veramente comprensibile. L’ambiente degli Stati Uniti è totalmente estraneo a tutto ciò che ha prodotto la Via del Tè e sarebbe stato un errore pensare di poter diffondere questa pratica spirituale come se si trattasse di esportare una mercanzia, come un apparecchio fotografico.”
(Soshitsu Sen XV, Chado lo zen nell’arte del tè, 1995)
Omar
5 febbraio 2018
#UnTèAlSolLevante #ViaggioIntornoAlTe
Omar,sei bravissimo !
GRAZIE
Teresa
"Mi piace"Piace a 1 persona
Grazie a te per avere letto e per l’apprezzamento. Io e Barbara siamo felici che ti sia piaciuto!
"Mi piace""Mi piace"
Grazie per tutta questa saggezza. Insieme vi completate, ed è bellissimo.
"Mi piace""Mi piace"
L’ha ribloggato su Vagamentè.
"Mi piace""Mi piace"