Il Cha no yu 茶の湯, ossia il complesso di azioni rituali legato alla preparazione formale del tè Matcha, sembra ormai non avere più segreti: tutti noi ci aspettiamo un ambiente lineare, rustico e pulito nel quale un Chajin 茶人 (maestro del tè) si appresterà a seguire una serie di azioni codificate volte a servire una tazza di “schiuma di giada” agli invitati. Il rito giapponese del tè sembra dunque una mera coreografia formale ma sarà veramente così?
Dietro a una maschera si nasconde sempre un attore, un individuo che è molto di più di una rappresentazione bidimensionale, una persona che, in quanto portatrice di emozioni, cela sempre una carica emotiva: allo stesso modo, superando le apparenze, ci accorgeremo di come del semplice tè in polvere sia in realtà un elemento della spiritualità giapponese.

Direi di cominciare sfatando un mito: il Matcha non rappresenta il modo più comune di gustare il tè nel paese del Sol Levante.
Dopo essere divenuta fruibile in tutto il Giappone (per ulteriori dettagli si veda Come i giapponesi conobbero il tè: tra mito e storia), la Camellia Sinensis segnò la nascita dei Tōcha 闘茶 (gare del tè), vere e proprie competizioni che consistevano in riunioni nelle quali i partecipanti erano tenuti a indovinare la provenienza di vari tipi di tè. Divertimenti mondani e banchetti facevano da cornice agli incontri previo descritti e, nel tempo, si sviluppò una forma di gioco d’azzardo chiamata chayoriai 茶寄合 che prevedeva la messa in palio di oggetti di valore quali premi per il vincitore.
Ora, se è vero che inizialmente l’atmosfera legata alla degustazione del tè era fortemente improntata allo sfarzo e incentrata sul gioco, sorge spontanea una domanda: quali furono le condizioni che determinarono una decisa inversione di rotta a favore della bellezza rustica e della semplicità?
Durante la fine del periodo Kamakura (1185-1333 d.C.) le pratiche eccentriche previo descritte cominciarono a caricarsi di un significato spirituale profilandosi come possibili dō 道 intese quali “vie per la salvezza dell’anima”. Tuttavia, la svolta significativa avvenne nel periodo Muromachi (1336-1573 d.C.) e, in particolare, grazie al cosiddetto periodo Sengoku (degli stati combattenti, 1467-1573 d.C.) ivi incluso, teatro di una forte instabilità politica.
Il clima bellico e caotico nel quale era immerso il Giappone dell’epoca determinò la necessità di creare attimi di pace e tranquillità capaci di isolare gli individui dalla realtà circostante favorendone al contempo la contemplazione interiore: nacque così, con l’appoggio dei bushi 侍 (samurai) e degli Shōgun 将軍 (comandanti dell’esercito, massima carica militare), un’atmosfera culturale connotata dalla sobrietà e ispirata ai principi dello zen detta Higashiyama bunka 東山文化 (cultura di Higashiyama).

A testimonianza di quanto detto possiamo ancora oggi ammirare il Ginkaku-ji 銀閣寺 (Padiglione d’argento, 1460 d.C.), villa e dimora dello Shōgun Ashikaga Yoshimasa nonché luogo adibito ad accogliere numerosi chakai (riunioni del tè tenute in occasioni speciali come, per esempio, offrire la bevanda agli dei o inaugurare l’anno venturo): l’edificio stesso, situato in una zona periferica e lontano dal tumulto cittadino, si allineava perfettamente con i nuovi ideali estetici e filosofici.
Oda Nobunaga (1534-1582), celebre figura militare giapponese, fu con ogni probabilità, paradossalmente, uno dei primi sostenitori del Cha no yu. Sebbene sfruttasse la cerimonia del tè quale motivo di ostentazione del proprio potere, il personaggio in questione rappresentò un promotore della nascita del cosiddetto buke-cha 武家茶, ossia il “tè dei samurai” durante il quale, per la prima volta, prese piede l’idea del rituale come occasione di riposo dalla guerra.

Nonostante l’appoggio della classe dominante, il perfezionamento del Cha no yu e il definitivo affermarsi del Matcha in ambito formale si deve a due monaci buddhisti. Il primo di quest’ultimi fu Murata Jukō (1423-1502 d.C.) che ideò i quattro principi della cerimonia del tè determinandone al contempo l’atmosfera rustica e riducendo le dimensioni del chashitsu 茶室 (stanza del tè) alla dimensione standard di 4.5 tatami 畳 (unità di misura giapponese basata sui tradizionali pannelli rettangolari di paglia intrecciata utilizzati tradizionalmente per la pavimentazione casalinga). A seguire, Sen no Rikyū (1522-1591 d.C.), considerato il vero fondatore dello stesso Cha no yu, ridusse ulteriormente le dimensione degli edifici adibiti ad ospitare il rito stilando, al contempo, i Sen no Rikyū shichisoku 千利休七そく(sette regole della preparazione del tè di Sen no Rikyū) nonché imponendo un corredo ed un arredamento conformi al gusto estetico rustico e grezzo: celebri, a tale proposito, le ceramiche dette Raku 楽焼, lavorate a mano e dall’aspetto volutamente artigianale o consunto.
Anche se oggigiorno siamo soliti assistere al rito giapponese del tè svolto da donne o geishe è opportuno specificare quanto, inizialmente, la partecipazione e l’esecuzione del Cha no yu fosse appannaggio del solo sesso maschile. L’emancipazione della figura femminile nonché l’estensione degli studi anche ai ceti meno abbienti furono fattori determinanti per l’ingresso della donna nel chashitsu. La necessità di mantenere un’antica tradizione nonostante la minore disposizione di tempo dettata dal contesto storico moderno comportò una riduzione della complessità rituale e l’inserimento di quest’ultimo all’interno del bon-ton (come diremmo noi Occidentali): essendo dunque le cosiddette “buone maniere” materia di studio scolastica per il sesso femminile è facile comprendere le ragioni che hanno condotto il rito del tè a trasformarsi nella forma che tutti noi conosciamo.

Prossimamente vi parlerò ancora del matcha e dei suoi segreti ma vorrei concludere questa breve introduzione con una riflessione. I Giapponesi amano giocare con le parole e, di fatto, il loro linguaggio ricco di omofoni (vocaboli dalla pronuncia identica ma dal differente significato) bene si presta a tale pratica. In apertura ho utilizzato il termine Chajin per indicare il maestro del tè o, in modo più generico, colui che si accinge a eseguire il Cha no yu. Nondimeno, “Chajin” significa anche “persona eccentrica”: è ironico pensare come una parola così strettamente connessa alla semplicità del rito del tè sembri invece riportarci alle sue radici mondane e stravaganti quasi a suggerirci come ad oggi sia considerata estrosa la naturalità piuttosto che la finzione, come una maschera venga spesso confusa con un volto…
Omar
11 ottobre 2018
#UnTèAlsolLevante
Nota per i non blogger: per commentare è sufficiente mettere il nome di battesimo e scrivere il commento. Non c’è bisogno della mail. Più facile di cosi 😉
GRAZIE mille!
Veramente interessante!
"Mi piace""Mi piace"
Grazie mille Teresa.
Barbara e Omar
"Mi piace""Mi piace"
Questi articolo sono da raccogliere e conservare. Grazie
"Mi piace"Piace a 1 persona
Grazie! Anche se non ho pretese di fare un libro, ho ancora molto da imparare anche io.
"Mi piace"Piace a 2 people
L’ha ribloggato su Vagamentè.
"Mi piace""Mi piace"