Tè e buddismo: un pugno di foglie per il Nirvana

Quante volte abbiamo sentito dire che il buddismo fu la principale ragione dell’approdo del in numerosi Paesi quali, ad esempio, il Giappone o la Corea del Sud?

Spesso, scommetto, ma ci siamo mai domandati quale sia la connessione tra questa “religione” e la Camellia Sinensis, oppure come abbia fatto tale dottrina ad attraversare intere nazioni senza essere rigettata ma, al contrario, ancorandosi ed adattandosi alle differenti tradizioni culturali? Senza la pretesa di scendere nei particolari o di stilare un trattato storico, pure non mancando di fornirvi spunti di approfondimento personale e di riflessione, cerchiamo di capire insieme come sia possibile raggiungere il Nirvana con una tazza di tè!

Chiunque abbia presente minimamente gli aspetti storici della diffusione del tè nel mondo saprà per certo che buona parte dell’esportazione di semi nell’estremo oriente è dovuta ai monaci buddisti di ritorno nelle loro terre dopo un soggiorno di studio presso i templi cinesi. Verrebbe da pensare, in conseguenza di quanto ricordato, che le dottrine buddiste siano originarie della Cina ma così non è, sebbene fossero ivi presenti già a partire dal primo secolo d.C. … Per la verità, esse si originarono in India nel V-VI sec. a.C. sulla scia dell’esistenza del principe Siddharta Gautama, sulle cui gesta e parole prende vita la Fede originaria e tutte le numerose declinazioni cui essa andò incontro nei secoli a venire.

Siddharta Gautama il primo Buddha

Statua del Buddha Amida Kōtoku-in, Giappone, 1252.

Per rispondere ai quesiti che ci siamo posti in apertura è necessario comprendere a gradi linee cosa sia esattamente il buddismo e, per farlo, direi che un buon punto di partenza sia proprio Siddharta Gautama. Egli è stato forse il primo Buddha o, quantomeno, il primo ad essere stato riconosciuto dall’umanità. Perché mi riferisco al principe indiano come al “primo Buddha”? Ce ne sono forse più di uno? Esatto, proprio così! 
Siamo abituati, forse a causa dell’iconografia classica o della diffusione del Cristianesimo in Occidente, ad immaginarci l’Illuminato come un’unica entità ultraterrena, divina: invero, non v’è nulla di più errato.

Ogni setta buddhista (ossia ogni branca del buddhismo), oltre alle divergenze teologiche, concorda su alcuni punti focali, cardini dell’intero modello di pensiero originario: tra questi, vi è la convinzione che Buddha non sia un Dio, non come noi lo intendiamo genericamente, perlomeno.
Buddha, dunque, è chiunque abbia raggiunto l’Illuminazione, il Nirvana: pertanto, egli non è un Dio, ma un semplice essere umano il quale, attraverso la disciplina, ha conseguito il risultato supremo. Ne deriva che all’interno di qualsivoglia corrente buddhista sia assente la concezione medesima di “Dio”, ed è proprio per tale ragione che teologi, antropologi e sociologi ancora oggi discutono circa la classificazione del buddhismo come Fede religiosa oppure dottrina filosofica.
Finora abbiamo discorso del Buddha, ma rimane ancora da chiarire che cosa sia il Nirvana e come esso si possa raggiungere…

Il Nirvana

Il Nirvana, nella concezione buddista, non collima con l’idea che noi abbiamo del paradiso: esso è, in poche parole, il nulla. In tali termini, la condizione finale dell’uomo potrebbe sembrare agli occhi di un occidentale un vero e proprio incubo, incarnare lo spauracchio dell’oblio. Invero, un buddista vede il vuoto non come la fine del tutto, bensì come l’origine di ogni cosa, il luogo dove gli opposti si riuniscono e dal quale essi sono nati, la possibilità del tutto, una teiera vuota da riempire con il tè che si desidera, per riprendere un’antica metafora orientale. In sostanza, per “nulla” il buddismo non intende il niente assoluto, ma la negazione di questo mondo, degli attaccamenti terreni e delle cose materiali: ognuno di questi elementi è infatti transitorio, fugace, mutevole, e l’attaccamento affettivo ad anche solo uno di essi vincolerà l’uomo alla terra, ancorandolo ad un ciclo di morte, rinascita e sofferenza per il distacco dall’oggetto amato. Tale “circolo vizioso” viene spezzato dal Buddha il quale, attraverso la rettitudine e la dottrina, raggiunge l’indipendenza dalla realtà materiale. Qual é, tuttavia, tale “dottrina”?

Ogni setta buddista radica le proprie speculazioni su un insieme di principi fondamentali unanimemente condivisi: tra questi, quelli che maggiormente ci interessano sono le “Quattro nobili verità” e l’”Ottuplice sentiero”.
Secondo le scritture che narrano le gesta di Siddharta, egli non annunciò un percorso universale, sostenendo invece che ciascuno dovesse trovare la propria Via per la salvezza: ciononostante, egli enunciò crudamente la realtà attraverso l’enunciazione delle “Quattro nobili verità”, fornendo poi delle “linee guida” – se così vogliamo definirle – per conseguire la liberazione dal mondo terreno.
Le “Quattro nobili verità” identificano, circoscrivono, delineano il “male” che affligge l’umanità in maniera quasi scientifica per poi, proprio come farebbe un medico, ipotizzare una cura. Semplificando, i postulati in questione sono, nell’ordine:

  1. La sofferenza esiste ed é classificata in otto tipi di dolore, dovuti all’impermanenza di tutte e cose.
  2. L’origine della sofferenza risiede non nelle cose in sé, ma nel nostro attaccamento ad esse, destinate a scomparire.
  3. Esiste l’emancipazione dalla sofferenza, perseguibile tramite il distacco dalle passioni terrene.
  4. La via che porta alla liberazione dalla sofferenza è il percorso spirituale che conduce al Nirvana, percorribile attraverso l’”Ottuplice sentiero”.

Senza necessità di approfondire minuziosamente l’argomento, è facilmente intuibile, alla luce delle “Quattro nobili verità”, come l’”Ottuplice sentiero” consista in una serie di step, di “passaggi” spirituali per giungere al Nirvana mediante una lenta ma progressiva elevazione bene simboleggiata dagli otto raggi del Dharmacakra o Ruota del Dharma, simbolo del buddismo. Nel dettaglio, i “gradini” da percorrere consistono in ”retta visione”; “retta intenzione”; “retta parola”; “retta azione”, “retta sussistenza”; “retto sforzo”; “retta presenza mentale”; “retta concentrazione”.

Ora, dopo avere compreso un minimo cosa sia esattamente il buddismo, seppure resti un fenomeno talmente ampio ed ormai globalmente diffuso da potere risultare a tratti fumoso, siamo forse un passo più vicino ad intendere come riesca tuttora così come in passato ad infiltrarsi in tradizioni culturali ad esso estranee con estrema facilità, senza generare nella maggioranza dei casi enorme scompiglio e, al contrario, portando con sé valori e pratiche aggiunte, come avvenuto nel caso del tè in Corea del Sud e Giappone.
Il segreto risiede nell’estrema – per non dire illimitata – tolleranza della dottrina buddista: essa infatti non condanna totalmente l’attaccamento ad una passione terrena oppure alle illusioni, purché queste contribuiscano a proseguire lungo l’”Ottuplice sentiero” e possano un giorno essere abbandonate per il conseguimento di uno scopo più alto. In tale ottica, la predicazione verso un Dio è accettata, inserita all’interno di un cammino spirituale individuale come una fase transitoria. Tutto questo, beninteso, non deve tradursi nella supponenza del buddismo. Esso non nega l’esistenza di una o più divinità: semmai, qualora esistessero, le accorpa all’insieme delle manifestazioni ed illusioni terrene.


Immagine di Eisai risalente al XII sec.

Grazie alla peculiarità di cui sopra, dunque, l’insegnamento di Buddha è stato in grado di conquistare dapprima la Cina, poi l’intero Oriente ed infine anche l’Occidente. Nell’Est del mondo, poi, dove esso è maggiormente praticato e dove hanno sede numerosi templi e gruppi monacali, ha portato con sé usanze, stili architettonici e, non in ultimo, il , utilizzato dai monaci cinesi stessi sia a scopi medicinali sia per tenersi vigili durante le lunghe meditazioni.

Nel Sol Levante, le foglie di Camellia Sinensis giunsero già nell’815 d.C. grazie al monaco Eichu, che lo offrì all’imperatore Saga il quale, estasiato, ne fece bevanda imperiale. Alla sua morte, l’infuso conobbe un calo di popolarità per poi rinascere definitivamente grazie all’opera del ben più noto Eisai, nel 1181 d.C. Proprio in Giappone, il buddismo si è evoluto in una delle sue forme ad oggi più diffuse, quella zen, ed il segreto del suo immediato ed enorme successo nell’arcipelago è dovuto ad una fede autoctona altrettanto tollerante, sincretica per la precisione: lo Shinto.

Sincretismo e i kami

Sincretismo” è un termine tecnico per indicare qualsiasi corrente religiosa che trascende la tolleranza per mostrare la capacità di unirsi ad ogni altro Credo: questo è proprio il caso dello Shinto. Esso, infatti, si basa essenzialmente sulla venerazione e sulla riconoscenza verso i kami, entità neutrali (da non confondere con spiriti), né buone né cattive, responsabili dell’armonia che regna sulla terra: non si possono “spiegare”, ma semplicemente “sono”, si “percepiscono”. Essi, seppure abbiano una gerarchia interna che potrebbe ricordare il pantheon greco-romano, non sono affatto divinità o spiriti nell’accezione a noi più consona: si tratta, piuttosto, di esseri che convivono quotidianamente al nostro fianco, sebbene spesso invisibili ai nostri occhi. Sono praticamente in ogni cosa: nella luce che filtra tra le foglie, nel vento che stormisce tra i monti, nel rumore delle acque che scorrono, nel seme che cresce, nel legno che compone i nostri mobili, ecc. Talvolta, decidono di mostrarsi ad una o poche persone, magari aiutandole: in quel caso, uno specifico kami sarà venerato nei pressi del luogo nel quale ha agito, come accade con i numerosissimi tempietti di quartiere sparsi in ogni dove in Giappone.

Secondo i principi appena enunciati, lo Shinto può fondersi con qualsivoglia credenza senza perdere la propria validità: un Dio può perfettamente essere considerato tale e, al contempo, la manifestazione di un kami. Perciò il buddismo, già estremamente tollerante, ha avuto particolarmente presa sulla popolazione giapponese, sebbene non siano mancati episodi di rigetto, più politici che ideologici a dire la verità.
Così, grazie al matrimonio tra Shinto e buddismo, oggi possiamo deliziarci con l’inconfondibile sentore umami dei tè giapponesi, percepirne le fragranze ed i riflessi vibranti, il verde brillate, assorbendo tutta la vitalità che trasuda da quelle foglie… in fondo, non si tratta forse del dono dei kami, che ce le offrono senza chiedere, coltivandole con il lento ed armonico susseguirsi delle stagioni?

Omar
30 maggio 2021
#untèalsollevante

2 pensieri su “Tè e buddismo: un pugno di foglie per il Nirvana

  1. Omar veramente mi hai stupito ed incuriosito nello stesso tempo, il tuo articolo ricco di informazioni, sorrido quando parli di Siddharta tu mi hai regalato il libro tu mi hai aperto nuovi orizzonti. Grazie

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