Sono molto felice di essere stata contattata da Omar l’estate scorsa per leggere la sua tesi e da allora è iniziato un bellissimo rapporto di collaborazione. Ogni volta mi chiede il mio punto di vista sugli articoli da scrivere e quando mi ha proposto questo gli ho subito risposto che anche se il tè non era l’argomento principale ma “solo” un collante per me andava benissimo l’argomento. In Occidente siamo più abituati ad esternare le emozioni, come la rabbia e il pianto, ma non siamo in grado di trovare le parole per esternare quello che proviamo, quello che stiamo vivendo. In oriente, almeno parlo della Cina, Nazione che conosco un po’ di più grazie a quello che pratico e grazie alla mia insegnante di Qi Gong, Viorica, non “vivono” le emozioni come noi in quanto sono più radicati. Che cosa significa questa frase? Significa che sono abituati a stare con i piedi per terra, a percepire i piedi e questo fa sì di perdere meno il controllo della testa, il Cielo. Infatti si dice “L’uomo tra Cielo e Terra”. Il Cielo è la nostra parte spirituale.
Impariamo a dire quello che proviamo e impariamo ad accettare e accogliere quello che l’altro ci sta dicendo magari anche con tanta difficoltà e sofferenza.
Buona lettura. Barbara

Giappone, prefettura di Miyagi, ore 14:46: una forte scossa di terremoto, magnitudo massima 9.0, si scatena colpendo parte del Tōhoku (regione giapponese) per più di 6 minuti ramificandosi in urla di morte, dolore e disperazione.Poco dopo, calando il colpo di grazia, si profilano all’orizzonte onde alte oltre 10 metri abbattendosi sulle poche macerie rimaste. La catastrofe è presto annunciata e non necessita di ulteriori declamazioni. Ad oggi si contano 15.704 morti ed ancora 4.647 dispersi ma, come sempre, l’invito è quello di non pensare soltanto in termini statistici.
L’acqua dello tsunami, simbolicamente, non ha solo ripulito le zone terremotate dei loro ultimi resti materiali ma sembra anche avere spazzato via l’umanità dei sopravvissuti privandoli delle loro emozioni, dei loro sentimenti, annegandoli nei loro ricordi, facendoli sprofondare nella memoria di un passato le cui tracce erano ormai state completamente cancellate, travolgendo le catene della ragione per lasciare spazio al ritorno dei fantasmi e del soprannaturale tipici dei locali kaidan (brevi racconti d’invenzione incentrati su spiriti o eventi macabri tradizionalmente raccontati tra amici in riunioni notturne dette kaidankai): volendo riassumere il tutto con un parola, “paura”.

Tra lacrime e singhiozzi, sfollati e grida di dolore, però, una luce ha cominciato, fioca, a riaccendersi: una piccola scintilla che, a mano a mano, ha saputo risvegliare il cuore o, per meglio dire, il kokoro 心 (parola che noi traduciamo con “cuore” ma che, per un giapponese, indica piuttosto l’animo autentico di ciascun individuo, la sua “umanità”), di molti superstiti, tergendo i loro volti dallo sconforto. Si tratta di un monaco buddista, Taiou Kaneda, il quale, convinto che non fosse sufficiente professare la propria fede in consolazione delle anime in pena, ha deciso di fare molto più che recitare semplicemente i consueti sūtra (testi del Canone buddista) e mettersi in gioco. Un modesto mezzo di trasporto, alcuni aiutanti, quel poco di necessario per imbandire un semplice pasto e preparare le consuete bevande ma, sopra ogni cosa, tanta voglia di “tornare alla vita” e metà dell’opera era già compiuta: a coronare il tutto un’insegna che, di lì a poco, sarebbe divenuta popolare, “Cafè de monk”. Perché vi dico tutto questo? Bene, che ci crediate o meno, tra i protagonisti del progetto in questione compare proprio il tè ma in che modo, vi starete domandando, la “bevanda ambrata” ha saputo sfidare lo tsunami? Tuffiamoci anche noi nel passato, proviamo a fare visita agli sfollati del 2011 e cerchiamo di respirare, per quanto possibile, l’atmosfera che aleggiava al tempo per non dimenticare, per essere simbolicamente partecipi di una tragedia che, ancora oggi, lascia le proprie tracce!
Cafè de monk
“Café de monk” è il nome che Kaneda ha deciso di dare alla propria iniziativa, un gioco di parole che, attraverso il termine “monk”, vuole significare “monaco” ma, allo stesso tempo, rimandare al giapponese “monku” 文句 (“lamentarsi”). In breve, si tratta di un vero e proprio “bar” itinerante attraverso il quale, offrendo cibo e bevande, prima fra tutte il tè, ai sopravvissuti dello tsunami, i preti consentivano a quest’ultimi di liberare le loro emozioni, piangere e raccontare le proprie storie personali. Ma che bisogno c’era di utilizzare un simile espediente? I giapponesi non potevano semplicemente “sfogarsi” e piangere come chiunque di noi avrebbe fatto? La risposta, come facilmente intuibile, è negativa.
“«Con questo pretesto- una tazza di tè e due chiacchiere in amicizia- la gente veniva ai templi e ai centri comunali dove si teneva il “Café de Monk”. […] Sono tutti sulla stessa barca e non vogliono dare l’idea di piangersi addosso. Ma quando si decidono a parlare, quando li ascolti e percepisci le loro fatiche e la loro sofferenza, tutto quel dolore che non riescono e non vogliono esprimere, dopo un po’ cominciano a cadere le lacrime e non si fermano più.»”
(Kaneda, The Passenger-Giappone, Iperborea, 2018)
Kijō 気丈 indica un sentimento tipico del Sol Levante e si compone dei kanji di ki 気 (spirito) e jō 丈 (forza, solidità, resistenza nel tempo): letteralmente, “spirito forte”. Se prendiamo in considerazione tale emozione unitamente alla tendenza nipponica di mettere al primo posto il benessere sociale piuttosto che quello individuale ne trarremo la seguente conclusione: “mostrarsi forti”, ossia non piangere né lamentarsi pubblicamente, non è soltanto un modo per divenire apparentemente un punto di riferimento per chi potesse avere bisogno di supporto ma, contemporaneamente, una forma di rispetto nei confronti di chi prova il medesimo dolore.
Spiegata ora la ragione della riservatezza degli sfollati, torniamo al nostro bar o, per meglio dire, “sala da tè” itinerante. Cosa raccontavano i sopravvissuti? Oltre a dipingere immagini del disastro e ricordare i propri defunti mostrando ai monaci i rispettivi butsudan 仏壇 (altarini domestici in onore degli antenati) od ihai 遺灰 (piccole stele incise in onore dei defunti), quello che più colpì Kaneda furono le numerose testimonianze di apparizioni sovrannaturali: fantasmi, spiriti, demoni e yokai 鎌鼬 (esseri spirituali, buoni o cattivi, appartenenti al folklore giapponese) non solo presero ad aggirarsi tra la popolazione ma, in alcuni casi, a dare vita a casi di autentiche possessioni che, regolarmente, i monaci si ritrovavano ad esorcizzare.

Richard Lloy Parry, scrittore britannico e autore di Ghosts of the Tsunami (2017), intervistando Kaneda viene a conoscenza di uno dei casi di possessione previo citati. L’11 Marzo 2011 il signor Ono, modesto operaio edile, stava lavorando nel proprio cantiere quando, avvertita la scossa, si mise subito al riparo: per fortuna, la sua area subì solamente parte di quello che, in seguito, egli apprese essere un disastro di enorme portata. Vedendo le immagini della catastrofe al notiziario, il manovale decise di visitare le zone colpite con la propria famiglia. Giunto sul luogo della catastrofe, dopo un primo senso di smarrimento, il signor Ono decise di prendere alloggio per qualche giorno con i suoi familiari ma, già dalla prima notte, cominciò a manifestare un comportamento singolare. Al calare della sera, dopo essersi addormentato, l’operaio si svegliava di soprassalto prendendo a rotolarsi nel fango per poi minacciare di morte la propria famiglia. Preoccupata, dopo alcuni giorni la moglie condusse il marito al cospetto di Kaneda il quale, compresa la situazione, dopo averlo esorcizzato, lo invitò a tornarsene da dove era venuto: egli era stato invaso dagli spiriti (umani e non) di coloro che avevano subito l’ira dello tsunami. La ragione di tutto questo risiedeva nel mancato rispetto di Ono nei confronti del dolore delle vittime: alloggiare serenamente nelle zone terremotate, considerando le macerie quasi uno “spettacolo” e concedendosi persino un gelato con la famiglia, aveva provocato l’ira dei fantasmi…
Il tè, dunque, ha saputo anche rappresentare un pretesto, per i monaci, di peregrinare nelle terre colpite dal sisma per consolare, ristorare i corpi e le anime dei superstiti ma anche esorcizzare i loro demoni interiori in una “marcia contro la paura” che continua ancora oggi acquattata dietro l’apparenza della ricostruzione. Ecco che, ancora una volta, la “bevanda ambrata” torna a fungere da collante sociale, opportunità di “mettersi in gioco” per esprimersi ed ascoltare il prossimo, riunendosi, se non sotto lo stesso tetto, almeno attorno ad una tazza. Così, come una goccia nel mare, il tè ha racchiuso la speranza umana accogliendo un’ondata di strazio e dolore nelle calde braccia della “Coppa dell’umanità”…
“«Quando nei sondaggi gli si chiede: “quanto siete religiosi?” i giapponesi risultano tra i popoli meno credenti del mondo. Mi ci è voluta una catastrofe per capire quant’è ingannevole questa autovalutazione.»”
(Kaneda, The Passenger-Giappone, Iperborea, 2018)
Omar
4 aprile 2019
#Tèmozioniamoci #UnTèAlSolLevante
Complimenti Barbara, come sempre, nei tuoi articoli trovo tanta passione, conoscenza e voglia di condividere cose belle e preziose.
Complimenti anche a Omar!!
E grazie per avermi menzionata nel tuo articolo.
Un abbraccio
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Grazie Viorica per avere gradito l’articolo e per le belle parole! Parlo anche a nome di Barbara!
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L’ha ribloggato su Vagamentè.
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